Backdoor Antivirus 11

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Backdoor Antivirus 11 

Ieri ho avuto il piacere di essere ospite all’interno di Altre/Storie di Mario Calabresi

https://www.mariocalabresi.com

è una newsletter settimanale. Eccola spiegata direttamente dall’autore “Perché una newsletter? Perché ti aspetta. Perché non si perde. Perché la ritrovi. Perché la leggi quando vuoi. Perché non ha limiti di lunghezza. Perché la si può curare nei dettagli. Perché è un appuntamento fisso. Perché è antica e moderna. Ho deciso di fare una newsletter perché mi somiglia e serve a raccontare le storie che mi stanno più a cuore”.

Come non essere d’accordo?

La attendo sempre, esattamente come Bastonate per Posta, del mio amico Francesco Farabegoli, l’unico che conosca che ha sempre un’opinione (divertente? inattesa? incomprensibile? invidiabile?) sulle cose che mi stanno intorno.

http://www.bastonate.com/bastonate-per-posta/

Cliccate sui link e iscrivetevi, non ve ne pentirete.

E così, ecco il mio piccolo omaggio a questo modo di raccontare quanto sfugge, prima ancora della canzone (che vi consiglio di ascoltare alla fine, o di notte, o quando siete soli)

Questo rende l’Antivirus molto più lungo del solito, ma è una storia incredibile, che parla, per chi scrive, di uno dei più grandi talenti della musica contemporanea. E di una città (come tutti) che amo incondizionatamente.

È una mia intervista, pubblicata su Rumore (grazie https://rumoremag.com/ ) nel 2015.

A Gigi Masin.

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SENZA TEMPO: GIGI MASIN

Di Maurizio Blatto

Con Gigi Masin, veneziano classe 1955, il tempo è stato parzialmente galantuomo. La sua musica, ignorata per anni, è passata da culto sotterraneo ad approvazione mondiale. Appartato e dotato di una grazia assoluta, il suo tocco minimale di tasti e assenze ha attraversato il tempo e ora è qui, per tutti.

È una storia singolare la tua, sia sotto il profilo artistico che umano. Hai una cifra stilistica personalissima che, pur accarezzando David Sylvian, i Talk Talk, l’elettronica impalpabile, l’ECM e i paesaggi di Robert Fripp, ha trovato dopo anni consensi presso il popolo di Ibiza. Raccontaci i tuoi esordi.

“Ho iniziato a suonare una chitarra scordata fino a quando, nella prima metà degli anni settanta, sono entrato nel mondo nelle radio private veneziane. Di giorno seguivo la normale programmazione pop da classifica, ma la sera avevo uno spazio di assoluta libertà nel quale trasmettevo Miles Davis, John Martyn, National Health o Dick Gaughan. Poi sono finiti i soldi e con loro il lavoro alla radio, e allora ho trasportato la mia passione dai vinili alla musica stessa. Volevo fare un disco a tutti i costi, e desideravo che fosse di chitarra. Ma per il mio compleanno mi hanno regalato un sintetizzatore, di fatto, cambiandomi la vita. Era un modello economico, ma quelle sonorità hanno mutato per sempre la mia sensibilità: ho iniziato a giocarci, costruendo linee semplici che scaturivano quasi per sottrazione. Ho fatto sì che quel giocattolo diventasse un’abitudine quotidiana”.

Sei un autodidatta, quindi.

“Assolutamente, e quello che creo mi viene quasi d’istinto. Non aspiro a fare nulla di universale, cerco un linguaggio, amo suonare e avere un riscontro, ma ho iniziato a comporre come gesto personale d’amore verso la musica. Me ne accorgo oggi, guardando da distante quello che ho registrato: il mio suono, nella sua pochezza, era già completo allora, funzionava nella totale assenza di arricchimento, frutto artigianale di un gioco con i tasti, di loop fatti da nastri attaccati con lo scotch”.

E così pubblichi Wind, nel 1986.

“Sì, e arrivo a farlo proprio con questo metodo. Wind, nelle intenzioni, doveva rimanere l’unico disco della mia vita, non prevedevo alcun seguito. Lo produco e stampo da solo e, in più, decido di regalarlo a chiunque lo volesse. Non ho venduto una sola copia di Wind, bastava chiedermelo e io lo consegnavo gratis. Si è sparsa la voce e ogni tanto la gente passava da casa mia, mi suonava il campanello e diceva “È vero che regali il tuo disco? Posso averlo?”. Così ho dovuto ristamparlo nel giro di otto mesi e sono uscite un paio di segnalazioni sulle riviste, con il mio indirizzo indicato. Il risultato è stato che in molti mi scrivevano “Non credo affatto che sia gratis, ma questo è il mio indirizzo, spediscimelo”. E così ho fatto, almeno fino a quando non ho esaurito le copie: lo mandavo a tutti”.

Immagino tu sia consapevole del fatto che detieni un piccolo record. Wind è stato il disco venduto al prezzo più alto nel marzo del 2012 sulla piattaforma di compravendita mondiale Discogs. Assegnato per 923 dollari e 83 centesimi. E quando qualche copia viene messa sul mercato non scende mai sotto i 500 euro. Che effetto ti fa?

“La cosa mi dà pochissima soddisfazione, ovviamente apprezzo che sia cercato, ma nel fondo del mio cuore mi dico non ci siamo. È in completa antitesi con le motivazioni originali. Quindi lo ristamperò e in un formato diverso da quello originale, per renderlo disponibile a un prezzo “normale”. Della nuova edizione se ne occuperanno delle persone di mia completa fiducia. Non soltanto la veste grafica sarà differente, ma anche il suono verrà migliorato”.

Tu possiedi copie originali di Wind?

“Cinque copie, tutte mie. È comunque strano, perché tu fai una cosa e la consegni al mondo, ma non hai idea di che strada prenda, quindi quando ha saputo che Wind veniva venduto a quelle cifre una parte si è stupita, ma l’altra voleva piangere. Era un disco gratuito concepito come un tributo a quella sensazione di rivoluzione e libertà assoluta che mi aveva regalato il lavoro in radio”.

Tu sei stato anche un dj, vero?

“Sì, nel periodo delle radio private, ma in realtà facevo il vice dj. Durante le serate nei locali eleganti di Cortina o al Lido di Venezia, scaldavo e raffreddavo la sala, senza mai assolutamente mixare. Avevo lo stesso approccio della radio e mi concedevo la medesima libertà. Erano anni in cui ci si fidava del dj, anche se azzardava un brano di Miles Davis per la pista. Forse c’era più apertura mentale. Il nostro è un Paese sindacalizzato anche per la musica, per capirci qui chi ascolta Springsteen vuole solo Springsteen, e allora gli ambienti aperti e senza barriere, che pur ci sono, fanno fatica a emergere”.

E il campionamento della tua Clouds da parte di Bjork?

“La storia è lunga e parte ancor prima. Un amico di Londra mi avvertì che i To Rococo Rot avevano usato in pratica l’intera Clouds per la loro Die Dinge Des Lebens (su The Amateur View, City Slang, 1999 nda). Lippok dei TRR insiste ancora oggi che sia solo un campione, ma basta ascoltare i due brani per farsi un’idea. In ogni caso io ho provato a contattare la band con tutto l’entusiasmo e la disponibilità possibile, ma mi è stato fatto capire subito e senza mezzi termini di stare al mio posto. Freddezza assoluta e nessuna apertura al dialogo. Quello è solo un campione, fine. La cosa sembrava essersi chiusa lì, ma un anno dopo, con grande cordialità, Lippok mi scrive nuovamente da grande “amicone” e mi dice che hanno avuto un’offerta per Die Dinge Des Lebens e, in poche parole, mi chiede un’autorizzazione o meglio, una liberatoria, dove avrei dovuto attestare che il pezzo era completamente loro. Calma, questo è un po’ troppo, anche per una vicenda dove non c’è mai stata alcuna forma di rispetto. Domanda e scava, dopo qualche mail viene fuori il nome di Bjork: era stata lei a richiedere il brano. Nel giro di poche ore ho preso il disco (Les Nouvelles Musiques De Chambre Volume 2, edito dalla Sub Rosa nel 1989, nda), di cui avevo solo tre copie, e l’ho spedito alla One Little Indian, l’etichetta di Bjork. Loro si sono accorti della cosa e, dopo una settimana, un responsabile mi ha contattato per tentare di ammorbidire i toni. Ammorbidire? Bastava non cercare di fregarmi e affrontare la cosa diversamente. Io avrei capito. Ma così si esagerava: ho ancora tutte le mail dove i TRR mi chiedono di girare Clouds a Bjork come fosse loro”.

E quindi?

“Bjork campiona Clouds nella sua It’s In Our Hands, mette il mio nome tra i crediti e, piccola vendetta, prende i Matmos e non i To Rococo Rot come band per il suo tour”.

Ma soldi?

“Zero. E ho solo più una copia di Les Nouvelles Musiques De Chambre, quindi se si rompe sono spacciato”.

Com’è possibile che non si dia un giusto valore economico al tuo lavoro? Sono grandi nomi, non hai pensato a intraprendere una via legale?

“Certo, ma ho desistito, troppo caro. E non è stato l’unico caso: Jun Seba in arte Nujabes, è il suono nome letto al contrario, un produttore giapponese, ha preso sempre Clouds, l’ha velocizzata, ci ha messo sopra il rappato firmato Five Deez e l’ha battezzata Latitudes (Remix). Senza chiedere nulla ovviamente, e allora quando l’ho saputo mi son detto – adesso basta-, ma poi ho scoperto che in situazioni come questa si lavora per accordi bilaterali, quindi per arrivare in Giappone avrei dovuto prima ingaggiare un avvocato a Singapore. Troppo complicato e, soprattutto, oneroso”.

E quindi?

“Niente anche in questo caso, ma Nujabes è morto due mesi dopo in un incidente stradale vicino a Shibuya, a Tokyo”.

Ahia. Proviamo a definire la tua musica: l’approccio minimale e i tocchi misurati e fortemente espressivi la riconducono spesso alla tradizione ambient di colossi quali Brian Eno e Harold Budd.

“Sono ovviamente musicisti che conosco e apprezzo, ma che quando ho inciso Wind, credimi, non sapevo nemmeno che esistessero. Io venivo da una tradizione rock, folk e jazz, o al massimo di musica contemporanea, come Ligeti e Penderecki. Per me Brian Eno era semplicemente il tastierista dei Roxy Music. Poi ho ascoltato i suoi lavori ambient e ho anche sentito Harold Budd dal vivo, apprezzandolo molto. Ma onestamente non vedo una continuità con Wind, che era un disco spontaneo e non così serio”.

Sei considerato uno dei numi tutelari della musica balearica. Come ti trovi nel mondo Ibiza?

“Mi stupisco e ho paura che scoprano da dove vengo e capiscano che non sono uno dei loro. Ma va bene, anzi benissimo. Il merito è dei ragazzi olandesi della Music From Memory, etichetta e negozio di dischi usati e non di Amsterdam. Sono delle bellissime persone. La loro filosofia è quella di dare una seconda possibilità a lavori che ritengono esser stati trascurati, sottovalutati o dispersi. Hanno un amore nel cercare e valorizzare i dischi che mi ha ricordato il mio, quello iniziale. Io ero uno dei primi della loro lista dei desideri e, quando mi hanno contattato, gli ho dato due dvd pieni della mia musica: trent’anni di vita. Ho lasciato massima libertà di scelta per il materiale che sarebbe finito su Talk To The Sea, pubblicato nel 2013. La loro selezione mi ha stupito e soddisfatto al tempo stesso e, proprio grazie al mio disco, loro hanno potuto economicamente stampare altre cose, come il recente I Was Crossing A Bridge di Vito Ricci. Allo stesso tempo io ho avuto una visibilità nuova, che mi consente di suonare spesso dal vivo e, soprattutto, di aprirmi e non chiudermi in me stesso. Io ho una famiglia e un lavoro normale, e questi nuovi spazi espressivi sono davvero vitali”.

A Ibiza ci sei mai stato?

“Mai. Però mi hanno detto che mentre mettevano la mia musica si aggirava Paris Hilton. Buffo no? Io ho sempre suonato per me stesso, ma evidentemente quel linguaggio piace ora e aveva bisogno di tempo per maturare. Trent’anni fa non funzionava e dieci anni dopo non se lo ricordava nessuno, evidentemente per qualche strana congiunzione astrale doveva aspettare oggi per entrare in sintonia con qualche ascoltatore. La cosa strana è che mi si chiede di cose che, anagraficamente, non mi appartengono più, ma ho capito che una finestra sul mio passato si stava aprendo quando i dj hanno iniziato a domandarmi il permesso di mettere un mio brano nelle loro compilation. Intanto rivelava un senso di rispetto superiore a quello dei campionamenti non autorizzati, ma mi faceva anche capire che c’era un desiderio nuovo. Mi chiedevo che cosa se ne facessero a Ibiza di una mia canzone d’amore, ma poi ho immaginato che forse c’è un bisogno reale di musica che sappia confortarti. È il momento in cui viviamo a richiederlo”.

C’è comunque un grande senso di serenità nel tuo lavoro. Una grazia assoluta.

“Io non sono come la mia musica e mi spaventa che lo si immagini, perché non sono affatto placido o sereno. Diciamo che a volte la musica compare, colleghi le tracce, abbini e devi soltanto salvare, quindi faccio finta di non conoscermi e mi godo il momento”.

Anche per le recenti collaborazioni?

“Sì, certo. Il progetto Gaussian Curve (Clouds, sempre su Music From Memory, con Jonny Nash e Young Marco, nda) è venuto fuori in due giorni e mezzo in una casa vuota di Amsterdam. Per l’improvvisazione di Lifted (1, su PAN, nda) non ci siamo dati regole se non quella di un amalgama sonoro che, alla fine, mi ha ricordato i Weather Report. Mentre per il lavoro con i Tempelhof (Hoshi, su Hell Yeah) ha contribuito che li abbia visti prima dal vivo, dove sono eccezionali. Progetti che mi hanno molto coinvolto e che forse in parte avranno un seguito, pur differente”.

Quanto ti influenza vivere a Venezia? È solo una suggestione da cartolina o ha un effettivo impatto sulla tua musica?

“Mio nonno era gondoliere, fai tu…. Ovvio che ti influenzi dove vivi, ma che si rifletta sulla musica non saprei. Io non riesco a stare lontano da Venezia, di trasferirsi non se ne parla. Ormai ho casa da anni a Mestre, ma è là, a dieci minuti e so che se ti perdi, scopri ancora angoli meravigliosi, delle enclavi “vere”. Da piccolo facevo il bagno nei canali, che erano limpidi e trasparenti, ti tuffavi dentro. Venezia era bellissima. Ma è anche una città ingrata, un palco dove i veneziani non suonano, a meno che non facciano reggae o ska, cantino in dialetto e si portino dietro l’orchestrina. Che uno come Enrico Coniglio (musicista e field recorder, consigliate le sue Topofonie, nda), registratore di luoghi veneziani quasi sezionati al bisturi, venga ignorato a casa sua, è offensivo. Prima o poi registreremo un disco insieme, ce lo diciamo sempre”.

A proposito. C’è un musicista “famoso” con il quale ti sarebbe piaciuto collaborare?

“Avrei voluto suonare per John Martyn, un autore che ho sempre amato. Al di là dell’alcool, l’ho sempre sentito vicinissimo a me”.

In chiusura: un luogo di Venezia e la canzone ideale da ascoltare lì.

“La stazione ferroviaria di Santa Lucia e From A Late Night Train dei Blue Nile. È insuperabile, la ascolti e pensi di dover buttare la tastiera, per sempre”.

Se siete arrivati fin qui, sappiate che i dischi di Gigi Masin sono stati ristampati e lui si esibisce abbastanza regolarmente dal vivo (un incanto, credetemi). Il mondo ha finalmente iniziato ad apprezzarlo come avrebbe sempre meritato. Sono usciti nuovi dischi a suo nome, tra cui uno, splendido, uscito da poco: “Calypso”.

Qui una bella presentazione del lavoro

https://www.youtube.com/watch?v=TE7mBhwbOKk

E la canzone? Eccola. Impalpabile, perfetta. Da “Small Hours”, come diceva John Martyn.

https://www.youtube.com/watch?v=OMFkgeoIOi8

Buon ascolto, vi farà bene.

PS anche questa

https://www.youtube.com/watch?v=tym7zDX6HGM

Backdoor riaprirà, si spera presto, e i vinili torneranno a girare

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