Questa sera (30 luglio), dalle 22,00 alle 23,00
sulle frequenze di Radio RAI 1
Maurizio Blatto e MyTunes ospiti.
Playlist, selezioni dal libro e amenità assortite
Sintonizzatevi!
prima di consegnarci alle vacanze,
ecco gli ultimi due appuntamenti estivi:
1-Giovedì 24 luglio: Casseta Popular ore 21,30
(ma si può cenare prima)
http://www.cassetapopular.it/appuntamenti-della-settimana/
2-Venerdì 25 luglio: ARFF Festival
h.15.00 / BOOBS Area
Colibrì presenta: “MYTUNES – Come salvare il mondo, una canzone alla volta”
(2014, Baldini & Castoldi).
Interviene l’autore MAURIZIO BLATTO,
musiche di Giorgio Pilon a.k.a. Selfimperfectionist
http://www.tolocals.com/alpetterock/arff14-il-programma-ufficiale/
Ritornano i consigli di Mauro/Il Direttore
https://www.backdoor.torino.it/?cat=5
ecco tre recensioni, tutte per voi.
HOW TO DRESS WELL – What Is This Heart?
Tom Krell ha sempre amato l’arte del defilarsi. Le sue sinfonie domestiche cosi sfuggenti, accenni R&B di una precarietà crepuscolare, quasi impalpabile. Una voce sicuramente black, ma timida, imbarazzata nel concedersi. Un mondo di fantasmi, celebrati nella saga domestica di Total Loss, dove parenti e amici morti accompagnavano Krell nel suo dolce e malinconico viaggio della memoria. La chiamavano witch house e Krell insieme ad altri colleghi dell’etichetta simbolo Tri Angle e a quell’altro esploratore delle morbidezze della notte che è The Weeknd, ne è da subito stato uno degli alfieri più illuminati. E il suo nuovo lavoro si apre proprio come Total Loss finiva. 2 Years On (Shame Dream). Stessi fantasmi della memoria, uguale nostalgia. Qualcosa però indica una nuova direzione. La voce è più sicura e la linea melodica pennellata da piano e chitarra maggiormente definita. Non è più tempo di nascondersi dentro il bozzolo della bassa fedeltà. Le intenzioni si chiariscono meglio in What You Wanted, dove intarsi di sax aprono a possibilità di lussi AOR. E’ l’inizio di una pagina nuova, in un crescendo continuo fra velleità mainstream levigate con grazia (Krell sa come arrangiare le sue canzoni) e una voce che oramai non teme più il confronto con i riferimenti del passato. E poi arriva Repeat Pleasure. Una cosa che è figlia dello stessa ricetta segreta che animava la perfetta freschezza di Human Nature cosi come immaginata da Jacko e Quincy Jones. Krell vola alto, ma soprattutto non ha più paura. Words I Don’t Remember incontra corpi bollenti nella notte. Krell si scopre fisico e anima la scena che fu di Hall & Oates. Tastiere profondissime costruiscono stanze dove la voce disegna piaceri rosso fuoco. Toccato l’apice, è tutta una discesa in perfetta scioltezza fra arrangiamenti che guardano ai Blue Nile californianidel terzo disco, accenni etnici e azzardi sinfonici come A Power. Insomma, Krell ha svoltato. Un nuovo grande interprete di soul post moderno è tra noi.
BEN FROST – Aurora
La terra del fuoco. Ben Frost, australiano d’origine ma oramai adottato dai ghiacci d’Islanda, terminale perfetto della Bedroom Community, ecclettica congrega capace di spaziare dalla musica degli Appalacchi all’elettronica ambientale. Ha plasmato con il fuoco strutture elettroniche altrimenti glaciali, nel suo applaudito By The Throat del 2011, reinterpretato colonne sonore sinfoniche con Solaris e partecipato a dischi appunto monumentali, come The Seer degli Swans e Virgins di Tim Hecker. In sostanza, il perfetto paradigma del compositore elettronico postmoderno. Ambientale e fisico, sinfonico e sintetico, freddo fuori ma bollente dentro. Se By The Throat era, appunto, un peculiare esempio di amalgama fra interferenze elettroniche, magma sintetico e volontà cinematografiche che provava a disegnare un percorso ambient sospeso, Aurora è il suono finale del campo magnetico terrestre che tende a diluirsi più velocemente che nel passato, l’approdo ultimo di Melancholia di Lars Von Trier. Coadiuvato nella sua ricerca di fisicità metallica da due esperti del genere, Thor Harris degli Swans e Greg Fox dei Liturgy, Frost abbandona le chitarre ed espande il campo d’azione dei suoi bleeps disturbati e rotti. Ne nasce un’ipotesi di dance primitiva e scurissima, quasi un sabba vichingo (qualsiasi cosa voglia dire). Più Sandwell District e Container che Basinski. Numeri di danza quasi epilettica, istintiva, tagliati di traverso dai ritmi marziali regalati da Harris e declinati su un intercalare senza sosta di crescendo e di silenzi e su linee melodiche materializzate sottotraccia. Il rave alla fine del mondo di Nolan, una delle cavalcate elettroniche definitive degli ultimi anni, il volo a planare di Secant e l’EDM sfiorata di Venter o No Sorrowing, tutti segni di una materialità grezza ma in realtà plasmata con cura. Venga Il Tuo Regno, come diceva Vollmann nella sua crudissima storia degli albori dell’America. L’elettronica non è stata mai cosi materiale e dolcemente dolorosa.
THE WAR ON DRUGS – Lost In The Dream
I segnali oramai sono chiari. Ariel Pink lo aveva capito. Simon Reynolds già teorizzato in ampie parti del suo saggio Retromania. La spiaggia in bianco e nero ritratta nel video di The Boys Of Summer di Don Henley aveva un dopo. Il Luna Park di the Tunnel Of Love di Springsteen era ancora aperto e le lezioni di volo di Tom Petty imparate a memoria. Gli americani uscirono definitivamente dagli anni settanta saccheggiando le tastiere analogiche del new pop inglese e regalandole a poesie di auto sfreccianti e donne sempre sulla soglia ad aspettare. Fu uno scandalo. Si danzava nel buio per la classifica, con gli occhi di Courtney Cox che guardavano lucidi. Il post punk aveva fallito e come sempre qualcun altro ne aveva capitalizzato le possibilità sintetiche. History Is For The Winners. Tastiere e fiati aerei al servizio di un capitalismo anelante di futuro. Opportunità di arrangiamento abilmente intercettate da The Boss, Dire Straits e Dylan. Per anni chi marca il ’77 con una netta linea bianca additò tutti loro come l’Anticristo. Mai e poi mai. Adam Granduciel sta nella sua stanza buia. Riflette. Ha avuto ovviamente una storia andata tranquillamente a puttane e vorrebbe scriverne. Due dischi alle spalle, in cui ci ha provato, ma non è riuscito a mettere a fuoco. Under The Pressure parte con il finestrino giù e la strada dritta davanti. Qualche anno fa, Jeff Tweedy chiese aiuto con l’alfabeto morse. Yankee Hotel Foxtrot come tentativo estremo di comunicare. Interferenze meta pop in corpo neo folk. Qui Granduciel parte con l’indolenza vocale di Tom Petty e incontra i lussi di sax fine ottanta sulle strade della California. Non è più solo. Gli sputi dell’oceano e il vento in faccia An Ocean In Between The Waves danno la sicurezza per rilanciarsi con un grido e un bell’assolone di chitarra, senza aver più paura di essere presi per dei cari estinti. Il gioco è fatto. I velluti notturni di Suffering e la Pale Shelter al rallentatore di Disappearing dove fa capolino anche un’armonica che avrebbe reso fiero Paddy Mc Aloon. Gomito fuori dal finestrino, sole, terra orizzontale e l’oceano a un lato che scorre. Per arrivare alla confessione finale di In Reverse. Granduciel chiude il cerchio e c’è chi si commuove, mentre altri hanno ancora provato a protestare, citando prima dell’arrivo Young Turks di Rod Stewart. Certo, vero, ma i ricordi non hanno regia, arrivano come un’onda. Il piano di The Way It Is di Bruce Hornsby e il sipario cala sui due amanti a piedi nudi di Don Henley. Si rincorrono ancora sulla spiaggia e noi non possiamo fare a meno di sperare non smettano mai. Some Things Will Never Change.
Lunedì 7 luglio, con l’autore e la redazione di Rumore, presso il circolo Casseta Popular (Via Tripoli 56, Grugliasco (TO) , presentazione di
In allegato al numero 270/271 di Luglio/Agosto, troverete una delle nuove “Guide Pratiche di Rumore”. Si intitola “Cinquanta per ’70″ e tratta per l’appunto gli anni Settanta: nascosti, sconosciuti, dimenticati o negati. 50 tesori sommersi per esplorare il lato musicale nascosto di un decennio contraddittorio e vitale. Dalla California al Brasile, da Londra a Seoul, dal punk alle porte del cosmo: un ritorno al futuro in 50 album.
Il volume è a cura di Carlo Bordone, una delle più importanti firme del music writing nazionale.
http://rumoremag.com/2014/07/01/rumore-270-271-luglio-agosto-2014/
Capisco che ci sono situazioni decisamente peggiori, impieghi usuranti, tirannie dettate dai gradi, banalità assassine da ufficio, però ogni tanto affiorano dei dubbi su ciò che faccio e sul mio ruolo. Talvolta mi tocca tornarci, niente da fare. Ad esempio qualche settimana fa mi sentivo piuttosto stanco e stavo guardando una vetrina di libri in una via pedonale del centro. Nel riflesso del vetro, tra un Cammilleri e un Fabio Volo, mi è parso di avere la faccia come un krapfen, gonfia e priva di espressione. “Non va”, mi sono detto, come i telecronisti di Mediaset quando l’attaccante spara alto sopra la traversa. Mesto e pensieroso, ho iniziato a sentire una voce che mi chiamava, prima flebile quindi più risoluta. “Mauri, Mauri, sono qui”. Sono qui, ma dove? Di fianco a me non c’era nessuno, all’interno del negozio non anima viva. Bene, ho pensato, è ora. La Morte è venuta a impacchettarmi o per ben che vada sto iniziando ad avere le allucinazioni. Finirò per discutere con ragazzi con la faccia da alano che vedo solo io, lo sapevo. Poi una mano mi ha sfiorato la caviglia. Benissimo, sono gli zombie, non ci avevo pensato, ma è una possibilità. Walking dead che mi hanno riconosciuto per quel che sono, un poveraccio con la faccia da krapfen. Finirò per essere il loro pasto. Uno snack. Allora ho abbassato lo sguardo di scatto e ho visto uno con la faccia vagamente familiare tentare di portare il busto fuori da un tombino. Capelli biondi, casco protettivo e barba sfatta, è Alessandro, uno con cui giocavo a calcio da ragazzino e che non vedevo da almeno vent’anni. “Lavoro per una ditta di spurgo, tu come te la passi?”. Ecco, il punto è questo. Io me la passo bene, chiaramente, posso dire a uno che sguazza ogni santo giorno nel liquame che ne ho le palle piene di quelli che mi chiedono quando ristampano Starsailor di Tim Buckley su cd? Bè, davvero no. Però ci sono giornate faticosissime, progettate da psichiatri deviati, assassini del comportamento. Quel pomeriggio di un giorno da cani morti si apre con una mattinata piena di svogliati, quelli che entrano senza desiderio, sfogliano a caso, non sanno nulla e trovano una parvenza di interesse unicamente nella sezione dei Pink Floyd. Innocui, ma logoranti. In genere dicono “Ah, ma si vendono ancora i dischi?”. I livelli di possibile risposta sono tre: 1 (amichevole) “Sì, anzi c’è stato un bel ritorno di interesse legato al vinile”. 2 (algido, ma nervosetto) “Bè, se siamo qui, vuol dire che si vendono ancora”. 3 (definitivo, di commiato) “No, non si vendono più. Teniamo aperto il negozio solo per rispondere a domande di coglioni come te”. Oggi siamo attestati sulla risposta numero 2, ma iniziamo pericolosamente a scivolare sull’opzione successiva. Fa caldo, troppo, l’umidità è a livelli tropicali e l’incasso è basso rispetto all’impegno profuso. Abbiamo rifiutato due buste di dischi con almeno sei titoli di James Last, analizzato una lista di ricerca di un appassionato di fusion (presenze in negozio: zero) e allontanato un pensionato collezionista di Dalida perennemente alla ricerca di una rara edizione belga in 45 giri allegata a una rivista femminile. Il primo del pomeriggio è il seguente. “Madonna, quanti dischi… senta, passando davanti mi è venuta in mente quella canzone là, ha presente, quella famosa, quella là… che si sentiva tanto, la sanno tutti, bella, quella là… no, non me lo ricordo il titolo, ma aspetti, è rock, rock… non mi viene nemmeno da cantarla, ma Lei la conosce sicuramente, quella là… ah ecco, magari così le viene in mente, è rock e c’è uno con la chitarra, sì, quella là, rock, con uno con la chitarra, ecco”. Niente da fare, viene accomiatato nell’afa massacrante. Quella là rimarrà un mistero. Boccheggiamo come carpe fuori da un lago svizzero, quando entrano i due castigatori definitivi. Disgraziati totali, accento veneto marcatissimo. Uno, enorme, suda come la Fuente de Cibeles di Madrid e ha una maglietta slavata dei Killing Joke, jeans a vita bassa e una riga del culo esibita con orgoglio e metraggio vicino al Canale di Suez. Si sfrega le mani e annuncia “Sono sicuro che troverò qualcosa”. Sulle braccia ha tatuaggi incomprensibili, probabilmente eseguiti da un cieco. Mi pare di scorgere un serpente con le ruote, ma non ne sono sicuro. È fatto come un’otaria. Andato. Il suo sodale è un rottame psichico, povero lui, con un’ombra di baffi biondi, un cappello piegato sulla visiera stile “se lo fa Jovanotti me lo posso permettere anche io, chi cazzo sono, il figlio della bidella?”. Esuli del SERT, piombati qui. Quello che suda rivolta il negozio, guarda tutto. Ogni due minuti chiama l’amico “Hey Michi, dai che tra un po’ andiamo”. Poi fischia, come a un cane, per richiamare la sua attenzione “Michi sei il migliore, il migliore”. Michi è come imbalsamato sotto una foto promozionale di Betty Davis, appesa vicino alla cassa. La tigre funk, nello scatto, indossa un abitino zebrato ridotto ai minimi termini. Ha lo sguardo di una killer del materasso. Michi all’improvviso mi dice, con una voce a metà tra l’eroinomane e Topo Gigio, “Mia madre ha un vestito come questo qui, ma rosso. Come questo qui”. Indica Betty. Quello che suda fischia tre volte “Sei il migliore, Michi, il migliore. Dai che andiamo”. Sono dentro da più di un’ora. Il Signor Franco è appoggiato alla Clint Eastwood sulla porta di ingresso con lo sguardo rivolto verso il nulla della Piazza, muto. Michi lo raggiunge e gli dice “Lo conosci Aldo?”. Passano decine di secondi e poi il Signor Franco risponde “Quello di Aldo, Giovanni e Giacomo? Sì, quello lo conosco”. Michi non risponde ai fischi e parte in una spiegazione indecifrabile di gente che ha conosciuto anni fa e poi dovrebbe ritrovare ora per motivi di soldi. L’afa e la fattanza si mescolano pericolosamente. Quello con la riga del culo fuori controllo mi strizza l’occhio e mi dice “Questo qui è un fenomeno, tu non hai idea. Un fenomeno. È vero Michi che sei il migliore? Diglielo anche tu, dai che andiamo”. Siamo tutti sul crinale della sopportazione. Sento che ci massacreremo a morsi, come bestie impazzite. Michi è di nuovo inchiodato in mezzo al negozio, muto. La sua storia personale deve essere anni luce oltre ciò che definiamo abitualmente come “drammatico”. Mi pare di capire che sia il fratello della compagna di quello che suda. “Il migliore, dai che andiamo”. Ma non vanno, sono ormai entrati due ore fa. Poi, sei o sette fischi dopo, Killing Joke mi dice “Bel negozio, devo tornare con calma. Ma non sono di qui, ci vediamo quest’inverno. Dai Michi, saluta che andiamo”. Abbiamo due stagioni di salvezza prima di rivederli, sempre che rimangano vivi fino a dicembre. Michi saluta e l’iper sudato si pulisce le mani impolverate sulla faccia, riducendosi come un minatore del Galles anni cinquanta. Sono lo scatto di una versione deviata del National Geographic. Michi saluta, superano il Signor Franco e barcollano verso l’ignoto. Noi non ci diciamo niente. Avremmo bisogno di una doccia e di una settimana in una Spa a Beverly Hills. Per quei due invece ci vorrebbe un miracolo. Le mosche iniziano a girare in tondo nel negozio, più fresco rispetto al clima sahariano di Piazza Barcellona, e c’è una puzza insostenibile. Afrore di disperazione. Pensiamo di averle viste tutte per oggi, ma il pomeriggio di quel giorno da cani morti necessita di un epilogo all’altezza. Così la porta si apre e ci regala in extremis uno che aspetta immobile di essere servito. Il Signor Franco gli si para davanti, senza dire nulla, come in un duello. Parte l’altro: “Dove li posso trovare dei dvd di Ciccio e Franco?”. Nessuno dice nulla, i muscoli tesi. Poi il Signor Franco gli volta la schiena e risponde, urlando, “A Palermo”. Adesso è finita davvero.
Effe Punto Dinosauri (Labellascheggia)
Bassa fedeltà per alta intensità emozionale.
I disgraziati americani (Sparklehorse, Vic Chesnutt…),
la grazia inglese (Nick Drake & associated) e i cantautori milanesi di ringhiera
AA VV Too Slow To Disco Vol.1 (How Do You Are)
Il manifesto dello Yacht Rock. California seconda metà anni 70, palme,
eleganza Steely Dan, desiderio Fleetwood Mac, bionde e cocaina.
Ogni tanto bisogna anche godere
Gianni Oddi Style (Schema)
Library italiana 1974. Grandissima ristampa.
Bossa, lounge e una dedica a Twiggy. Irresistibile
Swans To Be Kind (Mute)
Più psichedelici, forse.
Sempre mostruosamente compatti.
Morrissey The Lazy Sunbathers (da Vauxhall And I )
Perché poi va a finire che uno dice, ma come? Niente Moz questa volta?
Quindi ecco la canzone perfetta per la dolce pigrizia estiva. Voilà.
Angelo Del Boca Italiani, brava gente? (Neri Pozza)
Consigliato dal fido Andrea Pomini.
Nefandezze italiche commesse durante il nostro periodo colonialista.
Alex Bellos Futebol (Baldini & Castoldi)
Ideale per i mondiali brasiliani.
Leggete qui
https://www.backdoor.torino.it/?p=114
Pif
Il Testimone, la sua intervista dalla Bignardi, la capacità encomiabile di cambiare dolcemente “registro”
I tifosi messicani e algerini
(grande il Messico, grandissima l’Algeria)
Palazzo Graneri della Roccia, Via Bogino 9 – Torino
BALDINI&CASTOLDI
presenta
di Maurizio Blatto
reading di Maurizio Blatto
con musica a cura di Andrea Pomini
interviene Carlo Bordone giornalista e critico musicale
Ufficio stampa: Chiara Ferrero – c.ferrero@baldinicastoldi.it – 02 9455961
Circolo dei Lettori 011 432 6827